“Tra
15 minuti in scena”
La voce dell’assistente alla
regia...quella coi capelli corti…Manuela…No non si chiama così.
Martina. Forse.
Però la sua voce se la ricorda, la riconosce.
Armando prende un altro po’ di polvere di riso per fissare meglio il trucco sul bordo delle orecchie.
Si guarda nello specchio, avvicinando la faccia alla superficie liscia che gli rimanda indietro il naso dritto, la fronte rigata dalle espressioni ricorrenti degli ultimi 40 anni. Con una mano si riavvia gentile una ciocca canuta che gli è scesa sulla fronte. Ha 68 anni e ancora tutti i capelli. Sta in silenzio, ha smesso di vagare con lo sguardo e ora sta occhi negli occhi con la sua immagine.
Il riflesso della luce al neon attaccata
al soffitto del camerino gli dà fastidio. Si alza, tenendo in mano il panno che
aveva sulle gambe per pulirsi dal trucco in eccesso, e la spegne.
Ora che si risiede guarda la sua faccia
illuminata solo dalle lampadine nude allineate in fila intorno ai bordi dello
specchio. Guarda il centro del mento, cercando il taglio che si è procurato la
mattina radendosi. Non si vede nulla per via del trucco, ma lui sa che c’è, se
lo ricorda.Non gli viene in mente, invece, chi sia quel signore che lo ha salutato stamattina quando è uscito. Gli ha sorriso, lo ha ricambiato il gesto, ma non è sicuro di essere riuscito a nascondere del tutto il tentativo di collegare la faccia a un nome. Non sa bene perché ci stia pensando adesso.
La sua memoria non funziona più come
prima. Non lo ha ancora detto a nessuno né a sua figlia, che vive a Milano, né
alla sua agente. Gli sfuggono dei ricordi; un paio di volte ha sbagliato il
giorno del mercato, e l’altra settimana ci ha messo un po’ a trovare il portone
giusto. Girava tra le vie intorno alla sua, con la chiave in mano e le
sopracciglia aggrottate. Voleva andare a casa, aveva le buste della spesa che
lo ingombravano, ma non sapeva proprio quale fosse. Poi finalmente ha trovato
il portone, si è messo a ridere, ma non ha funzionato. Quel giorno ha pranzato
senza accendere la televisione, né la radio. Fissando, rigido, il bicchiere
riempito di vino a metà che tremolava ogni volta che con la forchetta spezzava
una fetta di polpettone.
“Tra
10 minuti in scena”
Ormai era quasi sicuro che la voce fosse
di Marzia.Ha smesso di guardarsi in faccia e gioca, invece, con le dita che formano delle ombre dai bordi imperfetti sul tavolino. Il movimento della mano, che si apre e si chiude quasi a saggiare la stretta del pugno, ancora vigorosa, si interrompe quando vede il copione dello spettacolo, coperto a metà dal cappello di scena. Non vuole sfogliarlo. Non ha il coraggio di toccarlo perché sarebbe costretto a confermare con un’azione, un gesto che per lui è abitudine, quel vago senso di pressione che ora sente sotto la camicia e sotto la pelle, talmente dentro al petto da solleticargli le scapole.
E per la prima volta, da molti anni,
pensa alle persone che questa sera riempiono il teatro, per vedere lui. Lo
faceva all’inizio, quando la gente non era molta, i costumi adattati, le
scenografie arrangiate. Ma il suo talento sì, quello c’era già allora.
Ci ha pensato anche qualche anno dopo
quando il successo, quello vero, è arrivato. Da dietro una quinta, sbirciava nello
spiraglio dell’abbraccio imperfetto dei due lembi del sipario. E spesso
chiudeva gli occhi e sorrideva, con i rumori della sala che si gonfiava al
vociare del suo pubblico.
Armando chiude gli occhi, ma non riesce
a sentire nulla. Troppo lontana la platea. E si rende conto che quel silenzio
lo spaventa ancora di più della sala piena. Di scatto si alza e inizia a
recitare il monologo principale del testo. Le parole scorrono fluide. Allora lo
ripete da capo, alzando la voce, quasi urlando, fiero.
Il respiro si calma, le dita allentano
la tensione con cui afferravano il bordo del tavolo e si lascia cadere sulla
sedia, quasi esausto e sudato. Chiude di nuovo gli occhi.
“Tra
5 minuti in scena”
Ha smesso di pensare a chi lo stia
chiamando. Ha paura di tentare di nuovo a indovinarne il nome. Lui conosce
quella ragazza, dopo quattro mesi di prove; sa che dovrebbe sapere come si
chiama senza esitazioni, eppure non è così. Ora proprio non se lo ricorda. Adesso
deve occuparsi dello spettacolo, del testo, delle parole. Non può però non
riflettere che è così che si deve sentire un atleta quando il
suo corpo inizia a rispondere diversamente da due anni prima, o cinque…
Lo hai sempre fatto, correre o saltare. Lo
hai sempre fatto come se per te non ci fosse sforzo e poi all’improvviso non
riesci più a farlo nello stesso modo. Inizi a sentire la fatica, come tutti gli
altri. Correre, saltare o recitare. All’inizio
è impercettibile, te ne accorgi solo tu. Provi ancora a dirti che in verità ti
stai sbagliando, che è solo una tua sensazione, per un po’…
Poi invece lo devi ammettere almeno
quando sei da solo e reciti dentro e fuori la scena perché nessuno, nessuno se
ne deve accorgere. Mai.
Allunghi le pause, i sorrisi e, con
mestiere, prendi tempo. È questo che cerchi di trattenere: tempo. Vorresti
fermarlo, afferrarlo, imprigionarlo ma ti sfugge, scappa via come granelli
conservati in un palmo chiuso senza troppa convinzione.
“Chi
è di scena”
Armando sente gli occhi inumidirsi, tira
per un momento indietro la testa e ricaccia dentro le lacrime. Poi si fissa,
con durezza. Si alza in piedi, si calza il cappello, e butta il copione nel primo cassetto del tavolo.
Sta per uscire ma si volta ancora a guardarsi e il suo braccio si tende dritto di fronte a sé, con l’indice che ammonisce la figura riflessa.
Solo un gesto che dura pochi secondi. Un comando, nessuna parola.
Quando il sipario si apre e lui entra in scena è accolto da un applauso fragoroso, intenso.
Non ne ricorda molti così, ma adesso non ci vuole pensare.